Incendiata la villa del collaboratore di giustizia Antonio Femia

fuoco500di Angela Panzera -- Incendiata la villa del collaboratore di giustizia Antonio Femia, alias Titta. Il rogo, avvenuto sabato pomeriggio a Gioiosa Jonica, è di probabile natura dolosa e ha distrutto quasi completamente l'immobile che comunque era disabitato. La villa infatti, era stata sequestrata all'indomani dell'esecuzione della misura cautelare a carico del collaboratore, ritenuto dalla Dda non solo uno dei principali trafficanti, ma anche un soggetto in contatto con le consorterie criminali della sia della Jonica, come gli Aquino o i Coluccio che della tirrenica, in particolare con i Brandimarte di Gioia Tauro e gli Alvaro di Sinopoli. Le indagini per stabilire le cause dell'incendio sono condotte dai Carabinieri della stazione di Roccella Jonica e dalla Procura di Locri, ma a breve gli atti saranno trasmessi alla Direzione distrettuale antimafia non solo perché la villa appartiene ad uno degli attuali più importanti "pentiti" di 'ndrangheta, ma anche perché il rogo appare come una vera e propria ritorsione nei suoi confronti e in quelli della sua famiglia.

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Tutto ha inizio il 13 e il 28 luglio dello scorso anno, carcere di Rebibbia. Antonio Femia, il 34enne di Marina di Gioiosa Jonica incontra i magistrati antimafia Luca Miceli e Paorlo Sirleo. Ha deciso di collaborare con la Dda reggina e i suoi verbali sono stati depositati per la prima volta nel processo abbreviato scaturito dall'inchiesta "Puerto Liberado", inchiesta condotta nel luglio dello scorso che ha svelato il presunto traffico di droga all'interno del Porto di Gioia Tauro e che ha già portato a numerose condanne in primo grado. Ed è stato proprio il suo arresto nell'ambito del maxi blitz della Finanza, e il suo successivo coinvolgimento nell'inchiesta "Santa Fè", che hanno portato Femia a "pentirsi". Ma non solo, è lui stesso a spiegare la genesi del suo pentimento. «Ho deciso di collaborare con la giustizia per la mia famiglia e perchè Brandimarte mi ha indotto a confessare una mia responsabilità al limitato ed esclusivo fine di scagionarlo». Ed è proprio sui Brandimarte di Gioia Tauro che Femia riferisce agli inquirenti. Secondo l'inchiesta "Puerto Liberado" le redini dell'organizzazione criminali dedita al narcotraffico sarebbero state tenute da Giuseppe Brandimarte quello che le Fiamme Gialle considerano il vero e proprio "inventore" delle squadre, ossia quei gruppi di presunti dipendenti infedeli che nello scalo di Gioia Tauro, come negli altri porti del mondo, si occupano di imbottire i container di cocaina che altri colleghi, altrettanto presunti infedeli, si occupano di svuotare quando la nave madre arriva a destinazione.

«Ho avuto sempre un comportamento poco consono- ha detto Femia ai pm- in particolare commettendo truffe anche con il mezzo informatico. Successivamente mi sono imbattuto in questioni di droga. Inizialmente assicuravo lo scarico della droga nel porto di Gioia Tauro perchè conoscevo le persone giuste. Grazie a questa mia riconosciuta serietà ho lavorato con i fratelli Alfonso Brandimarte e Nuccio. Quindi ho via via assunto il ruolo di tramite fra i soggetti che avevano bisogno della droga e i Brandimarte. Costoro avevano una squadra di portuali infedeli, fra cui Vincenzo Trimarchi, imputato in "Puerto Liberado". Il carico per cui fu arrestato Trimarchi, che era riconducibile ai Brandimarte, era di Giuseppe Alvaro nel senso che era il committente avendone finanziato l'acquisto in parte. In altra parte i Brandimarte».

Femia non ha parlato "solo" dei Brandimarte, riferisce anche dei clan di Sinopoli, e di mezza jonica implicata nei traffici di droga e usura.

Nelle motivazioni della sentenza di primo grado scaturita dall'operazione "Puerto Liberado" il gup Barbara Bennato si è così espressa sulla sua collaborazione e posizione processuale:

"Le dichiarazioni rese dal Femia sono apparse precise e dettagliate, logicamente compatibili con pregresse acquisizioni investigative e hanno riguardato in primo luogo fatti nei quali il medesimo è stato personalmente coinvolto, o per avervi direttamente preso parte o assistito ovvero esplicitando, quanto ai fatti conosciuti in via indiretta, le proprie fonti di conoscenza, mettendo quindi in condizione l'Ufficio di Procura di poter avviare ogni utile verifica al riguardo. Quanto fin qui riferito dal Femia trova importantissime conferme negli esiti di attività di investigazione autonomamente svolte dalla Polizia giudiziaria. Sotto tale profilo può senz'altro sin d'ora sottolinearsi la rilevanza e la novità di tale collaborazione. Per un verso, deve sottolinearsi che, attraverso le dichiarazioni rese dal Femia, è stato infatti possibile non soltanto rafforzare in maniera decisiva il quadro probatorio a carico dei computati nel presente procedimento, ma anche avviare indagini preliminari nei confronti di soggetti non ancora interessati da attività investigativa da parte delle Forze di Polizia".

Adesso quindi è questione di giorni e le indagini passeranno alla Dda tanto che il procuratore capo Federico Cafiero De Raho è già stato informato su quanto è accaduto. La vastità e le modalità dell'incendio, seppure non vi è ancora la piena conferma, portano comunque le forze dell'ordine ad ipotizzare che esse siano dei veri e propri segnali intimidatori: il pentito Femia fa paura ai clan soprattutto alle famiglie di Gioiosa e Marina di Gioisa Jonica