La leggenda dei beni sequestrati alla mafia

dia inchiestalastampaCi si potrebbe fermare qui, un passo oltre la porta della Agenzia nazionale per i beni confiscati alle mafie. Al cospetto delle parole del direttore amministrativo Massimo Nicolò (165 mila euro di compenso annuo, di cui 14 mila di premio di risultato). «Siamo in pochi», dice. «Vede dottore, tutti sparano a zero contro di noi. E ci sono problemi quotidiani, non si può negarlo. Ma in quanti siamo oggi al lavoro?». Sono in 37, a fronte di 55 mila beni confiscati in Italia. «Non ce la facciamo - dice - non possiamo farcela. Siamo dentro un gigantesco imbuto burocratico. In teoria, la legge ci darebbe la possibilità di assumere 100 persone, ma sono costi a carico delle amministrazioni di provenienza. Si rifiutano di darci il personale. Oppure lo richiamano indietro, quando lo abbiamo appena formato. Non siamo neppure riusciti a chiedere il bilancio consuntivo del 2013. Siamo pochi e tutti ci additano. Ma non ci danno i mezzi per lottare. Una scatola vuota? Diciamo che siamo una scatola da riempire».

Le sorprese

Ci si potrebbe fermare qui. Dentro questa palazzina gialla sgraziata, con le bandiere arrotolate, i corridoi vuoti, un silenzio spettrale. Ma sarebbe un errore. Ci perderemmo diverse sorprese. Quelle che un sostituto procuratore di Catanzaro, Vincenzo Luberto, definisce provvedimenti manifesto. «Sono leggi inventate con l'unico scopo di mettere in scena delle belle intenzioni, mentre nel concreto si fa esattamente l'opposto». Luberto sostiene che le cose in Calabria, tutte quelle che riguardano la lotta alla 'ndrangheta, si ispirino a questa principio: «Fare finta di...». «Voi giornalisti - dice Luberto - guardate sempre il dito e vi perdete la luna». E quale sarebbe, la luna? «Prendiamo il caso del processo al clan Muto di Cetraro, il re del pesce: 22 condanne definitive. Grandi titoli sulla costituzione di parte civile della presidenza del Consiglio. Era la prima volta che succedeva in Italia. Un segnale forte. Era il 2006». E poi? «Sono passati otto anni. Nessuno è andato davanti al giudice civile a chiedere l'effettiva quantificazione del risarcimento. Lo Stato italiano poteva recuperare soldi dalla famiglia in questione, ma non lo ha fatto».

La Calabria è un pozzo di notizie. Ed è vero quello che ha dichiarato il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, durante l'apertura dell'anno giudiziario: «L'impressione è quella di un sistema allo sbando. Riuscire a ripristinare la legalità nei confronti delle grosse organizzazioni mafiose è impresa quasi impossibile». Su 59 beni sequestrati a Torino, 58 sono ancora nelle mani degli illegittimi proprietari. Beni che l'Agenzia con sede a Reggio Calabria nemmeno conosce. Mancano i collegamenti. Il sito Internet non è aggiornato. Spesso il telefono squilla a vuoto. Il direttore amministrativo Nicolò è l'unico ad aver accettato di rispondere alle nostre domande: «Al telefono, almeno nella sede principale di Reggio, io rispondo sempre e fino a tarda sera. Lavoro dodici ore al giorno. Ma è più che probabile che nelle succursali, i pochissimi impiegati lascino alcuni orari scoperti. Quanto a sapere, effettivamente, quali siano i beni confiscati, allora... Noi ci rifacciamo ad una vecchia banca dati del demanio che, senza voler parlare male di nessuno, beh...». Nessuno sa. Nessuno ha la mappa. I tempi burocratici italiani applicati alla materia dei beni sequestrati giocano a grande vantaggio dei mafiosi.

Piccole storie calabresi significative. Dopo anni di battaglie giudiziarie, il Comune di Lamezia Terme era riuscito a farsi assegnare un alloggio sequestrato alla famiglia Benincasa, nel quartiere ad alta densità 'ndranghetista di Capizzaglie. Lo ha ristrutturato e dato in gestione alla cooperativa Progetto Sud per ospitare dei rifugiati politici. Ma la corte d'Appello ha restituito il bene alla famiglia, che ora ci abita con impianti nuovi e infissi ammodernati con soldi pubblici.

Gli investimenti

A due passi dal Castello Aragonese di Reggio Calabria, quasi di fronte al Tribunale, c'è un palazzone lasciato a metà. È lì da cinque anni, come una specie di monumento. Era stato sequestrato a Gioacchino Campolo, detto il re dei video-poker. Mezzo centro storico era suo. Il villino che ospitava in affitto la sede di Forza Italia. Il palazzo prestigioso in via Malacrinò, dove c'era la sede del Tribunale di Sorveglianza. Così come il «Super Cinema» sul lungomare, ormai chiuso da più di dieci anni e mai riconvertito. Non è facile trovare imprenditori che vogliano investire soldi su beni dal futuro tanto incerto.

Anche il procuratore capo di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, usa parole definitive: «La gestione non funziona. Manca la cognizione di quali siano i beni sequestrati, dove si trovino e la destinazione. È una ricchezza che lo Stato lascia nelle mani dei mafiosi». Ci sono tre proposte di legge per modificare l'Agenzia. Si discute se portare la sede a Roma o lasciarla a Reggio Calabria. «Il problema è politico» dice un impiegato a fine turno, con aria abbacchiata. Ecco, ancora la luna. La politica.

Articolo a cura di Niccolò Zancan, inviato a Reggio Calabria per La Stampa
da http://www.lastampa.it/2015/01/29/italia/cronache/la-leggenda-dei-beni-sequestrati-alla-mafia-CIFKX9ptZTNbZIFjI6oIXN/pagina.html